C’è bisogno di stare a casa ma non soltanto, e forse quando lo capiremo la smetteremo di giudicare tutte le persone diverse da noi, che reagiscono all’emergenza con propri inspiegabili e legittimi criteri di sopravvivenza. Criteri che stridono con il mantra del #andràtuttobene che a volte pare una nota stonata nella sinfonia del silenzio che, solo, potrebbe onorare la solennità del momento. C’è bisogno di resistere al desiderio soffocante di abbracciare le persone a cui vuoi bene, che per qualche ora vorresti avvolgere tra le braccia come se non ci fosse un domani e invece guardi piangere dietro lo schermo disturbato di un ipad. C’è bisogno di raccontare una storia a lieto fine a tutti quei piccini che in casa piangono e fanno i capricci perché non sono pronti alla guerra, sono abituati a passare ore tranquille e sempre uguali, scandite da visi gentili che si prendono cura di loro. C’è bisogno di distrarsi dal futuro, di gestire la paura del domani che non riusciamo a immaginare, che nel suo non accadere ci paralizza nell’incertezza. C’è bisogno di isolarsi in gruppi talmente piccoli da contrastare con il bisogno di consolazione innato e irrinunciabile. Fuori dal gruppo rimangono così tante persone che tu vorresti dentro il gruppo con tutte le tue forze, perché non siamo fatti di legami di sangue e corrispondenza genetica ma siamo fatti di amore e di carezze, di sguardi e di sorrisi. C’è bisogno di proteggere gli anziani che hanno più paura di rimanere da soli che di morire, che ci chiedono di andare a comprare il pane solo per ‘raccogliere’ parole e visi che sanno di forno e di vita. C’è bisogno di bellezza e di cultura, di coraggio e di onestà, di tolleranza e di rispetto. Lo sforzo di rimettere la morte al suo posto in un mondo che l’ha negata, truccata, esorcizzata, ingannata, diluita, ridicolizzata. Che ce l’ha sbattuta in faccia nei telegiornali, nei racconti di persone disperate che però non perforavano la serenità delle nostre vite insensibili e impegnate. C’è bisogno di combattere in prima linea, a 30 anni, specializzanda in rianimazione alle prese con chi ce la fa e con chi non ce la fa, dovendo impavidamente rimanere là. C’è bisogno di diventare più liquidi e meno granitici per accogliere e avvolgere tutti quelli diversi da noi, quelli che ridono troppo, che vorrebbero solo correre, che si affacciano sui balconi, che piangono per un nulla, che cercano di scappare, che credono di non farcela. Che hanno 17 anni e non riescono a dare un nome alla paura. C’è bisogno di Dio proprio quando sembra si sia dimenticato di te. Mi fermo e ascolto il rumore del pianeta che ora è pulito e respira di respiri infiniti e vitali e so che c’è bisogno di credere che starà lì ad aspettare i tempi che verranno, la stagione guarita, il nuovo giorno in cui potrà abbracciarmi e cullarmi… e solo allora saprò che sarà andato davvero tutto bene.
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